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L’uomo che ride, terza parte.

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L’UOMO CHE RIDE
Ovvero, in che cosa consiste il risibile, di Giorgio Mancinelli.
Sociologia - Terza parte.

Se l’altra metà del cielo ride!

Approntare un qualcosa che richiede ponderatezza è di per sé non facile, se – come sto cercando di fare – vorrei poter dare al “ridere” lo spessore di una teoria, seppure nella dimensione dell’analisi socio-psicologica. Perché in fondo ridere è un po’, come dire, dare la giusta importanza “all’entrare in scena” in modo sorprendere, un dire repentino e accattivante, e se vogliamo irruento e dinamico ma, come dire, “a vuoto”. Cioè staccato, per lo più, dal gesto che è di per sé imperativo, così come certe volte è il silenzio, quando è parte integrante di un parlare muto, di una “pausa” che raccoglie una qualche significazione. Che è poi come dare all’attesa, spaziale e temporale, la sensazione che tutto o nulla stia per accadere. Dipende dall’intensità espressiva della “pausa”, dall’immediatezza o dalla lentezza quasi ostentata dello sguardo o del gesto che l’accompagna. Trattenere il pensiero (visivo) entro l’intuizione dell’istante in cui si mette in moto la psiche, dato dall’intervento del fatto emotivo ch’è subito tramutato in sensazione. Allo stesso modo che avviene per l’effetto di provare caldo o freddo, simpatia o antipatia, agevolezza o ritrattezza, riprovazione o meraviglia, percezione o sensitività. E perché no, che scaturiscono talvolta in quei moti dell’anima come l’affetto, l’amore, l’ardore, la volontà di conseguire qualcosa che fino a quel momento non ci era dato, ecc. E che subito facciamo nostri tramutandoli in fervore, piacere, sensualità, passione. In tutti quei “trasferimenti emotivi” che ci invitano a sorridere ( e spesso a ridere) di noi, degli altri, della loro e della nostra comicità. Di quella che possiamo considerare “l’alterazione, o meglio la trasformazione ridicola, nel senso naturale, degli uomini e delle cose in genere (..), che è l’alterazione ridicola (o ridicolosa) di una data persona (i suoi tic e le sue manie), o anche di una data cosa”. (*)

Ma in che consiste l’idea del comico?

«Il comico è l’idea del bello che si smarrisce nelle relazioni e negli accidenti della vita ordinaria» (Solger)
«Il comico è il brutto vinto, la liberazione dell’assoluto schiavo nel finito, il bello rinascente dalla sua propria negazione» (Ruge)
«L’idea uscita dalla sua sfera, e confinata nei limiti della realtà, di guisa che la realtà appaia superiore all’idea» (Vischer)
«Una realtà senza idee, o contraria alle idee» (Carrière)
«La negazione della vita infinita, la soggettività che si mette in contraddizione con sé medesima e con l’oggetto, e che manifesta così al maggior grado le sue facoltà infinite di determinazione e di libero arbitrio» (Luigi Pasi che rifà il verso a Schlegel, Ast, Hegel).

Non c’è che dire se nel passare in rivista le varie definizioni del comico dei vari filosofi ci viene da ridere, la filosofia (spicciola e popolare) spesso è cagione del ridere, “una gioia mescolata d’odio”, dice qualcuno, e un altro gli fa eco col dire che è “contrasto, mancanza d’armonia”. Non meno per lo Zeising che dice: «L’universo è il riso di Dio, e il riso è l’universo di colui che ride. Colui che ride s’innalza fino a Dio, diviene in parte creatore d’una creazione allegra..» (*). Volendo dare una definizione filosofica delle cause del riso, io credo che il meglio sia ancora di attenerci all’opinione del vecchio Aristotele, come hanno fatto gran parte degli scrittori moderni, e fra essi lo scozzese Dugald Stewart, per il quale «..cagioni del riso sono propriamente quelle imperfezioni del carattere e dei modi che non sollevano punto l’indignazione morale, né gettano l’anima umana in quella tristezza che ispira la depravazione» (*). Va qui tenuto conto che talvolta il riso diventa derisione, la caricatura di una crudeltà se basato su compassionevoli imperfezioni. Ma allora bisogna risalire alla ragione di quella crudeltà nelle qualità morali del ridere, cioè del ridere di pietose deformità che mettiamo in caricatura.

E voi ridete, ma di qual riso?

Riso di soddisfazione per la macchietta, che ha il sapore di atto vendicativo per la punizione inflitta. Il comico in questo caso non centra per nulla. Osservazioni le mie che, se determinano, in certo qual modo, l’arte del riso, non determinano in alcun modo le cagioni che possiamo additare con certezza, soltanto perché subordinate alle varie sensibilità dell’uomo che ride. «Basterebbe recarsi a una esposizione di caricature (e non solo) per vedere e studiare nell’espressione dei visitatori le cause molteplici del riso. Per accorgersi che, accanto a colui che ammira, c’è quasi sempre colui che ride. E la cagione? Chi sa dirla! Bisognerebbe cercarla nella sua sensibilità (..) nel suo spirito d’osservazione con attitudine aperta al comico, la sua più chiara cagione del riso. (..) E gli esempi valgano a farmi concludere che tanto vi ha cagion di riso, quanti sono i caratteri dell’umano genere, i quali, hanno poi bisogno a loro volta di un determinato momento per afferrare la tale o tal altra materia di riso» (*).

“Ci sono degli uomini nel mondo nati ridicoli, per essere posti in ridicolo (caricatura), e che muoiono ridicoli; altri invece nati apposta per trovare il ridicolo nei ridicoli, e far ridere il prossimo alla barba degli altri” – afferma il Paolieri in una sua conferenza, riportata da Luigi Rasi in “La caricatura e i comici italiani” - Bemporad – Firenze 1907, dove ho affondato la mia ricerca a piene mani.

Tutto ciò che il ridere accoglie e scaturisce non avviene forse nel silenzio inconscio della nostra mente e del nostro cuore? Va con se che quell’ “attesa” che in questo scritto mi ostino a chiamare simbolicamente “silenzio”, pur richiede nell’immediatezza un tempo minimo di gestazione, che va dal presente indietro al passato remoto, ed avanti al futuro immediato, che trova adempimento sulla scena del quotidiano. Un tempo misurato sull’interpretazione di una pausa (né corta, né troppo lunga) equilibrata sulla parola detta, in rapporta con la gestualità di chi ride, o di chi in quel momento interpreta. La gestualità nella parola, la pausa significativa, sono costanti del teatro e della teatralità, onde per cui, chi interpreta, o narra, o verseggia, alla fine si ritrova a essere attore del teatro che autogestisce. Se vogliamo, un teatro dell’assurdo, o delle assurdità, che in rapida successione (il tempo di una battuta, una freddura, una barzelletta) permette di imprimersi nella mente che lo traduce in linguaggio, in quel parlare fatto di parole e di intendimenti che ci permettono di comunicare. Ma ciò non basta. È necessario che la parola detta abbia valenza di suono, che sia “sonora”, che acquisti, cioè, la tonalità e lo spessore giusti che le permettano di farsi udire.

La risposta è il “riso” e se vogliamo “l’applauso” che ci facciamo da noi stessi, che scaturisce nell’applauso degli altri. Ma è comunque l’idea che abbiamo di noi, la certezza delle nostre capacità d’una pienezza e d’un’evidenza positiva, o almeno singolare, a permetterci di dare sfogo al riso. Solo in esso e per esso, abbiamo la reale sensazione di esistere. Ecco che ridere è riempire il silenzio che ci circonda e farlo nostro, riappropriarci del nostro inconscio, della nostra dimensione onirica che sta tra la realtà e la finzione, sospeso tra la temporalità e la temporaneità della parola, tra il presente scenico e la coscienza del passato, ch’è pur vive entro la precaria eternità del futuro futuribile.

Tutto dipende da noi, dalla nostra volontà di essere e divenire, di ridere o di piangere delle nostre sventure, importante nella vita non perdere l’illusione di essere vivi. “Probabilmente l’umorismo in sé non esiste. Esiste solo il senso dell’umorismo C’è chi ce l’ha e c’è chi non ce l’ha. Chi ce l’ha sta meglio di chi non ce l’ha. Nessuno può insegnarcene l’acquisizione. C’è chi ce l’ha in forma irriverente quando qualcuno cade dalle scale e chi ne fa mostra solo quand’è di buon umore. C’è chi ride esclusivamente delle proprie spiritosaggini e chi, fortuna sua, ride delle proprie disgrazie. La vita è piena di situazioni. E la maggior parte delle situazioni (escluse quelle desolatamente insignificanti) ha due facce: comica o drammatica. Per cogliere quella comica è appunto necessario il senso dell’umorismo. Chi ce l’ha ce l’ha e chi non ce l’ha non ce l’ha. Io ho scoperto solo questo: che c’è gente che ride per delle fesserie immani e gente che non si degna di un sorriso neppure di fronte alla più comica delle situazioni” – scrive Leila Baiardo, (non me ne voglia), nella prefazione a “Barzellette” www.laRecherche.it.

Ed a proposito della barzelletta, una delle forme del ridere, aggiunge: “La barzelletta è quella forma di comicità adatta a tutti per il semplice fatto che non è una narrazione interamente comica, cosa che richiederebbe attenzione, intelligenza, capacità associativa e la conoscenza degli svariati accordi tematici riguardanti l’umorismo. La barzelletta è piuttosto una situazione tipica e normale in cui a un certo punto si ribaltano le regole del gioco per mezzo di un imprevisto o d’una battuta inaspettata. Chi ascolta, ascolta impaziente, solo perché sa che prima o poi arriveranno la frase o il gesto che lo faranno ridere. L’importante è il finale, la didascalia sotto la vignetta, la risposta ridicola a una domanda seria”.

Se ve la sentite di dire la vostra su questo argomento, scrivetelo come commento a questo testo, ogni argomentazione sarà ben accetta. Grazie.


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